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album di famiglia01/07/2010



Come ogni letterato, Panzini amava i libri. E tra i libri forse amava di più quelli che rappresentano situazioni anomale e bizzarre della vita di tutti i giorni. Ognuna delle sue opere rimaste famose (La lanterna di Diogene, Il padrone sono me!, Il viaggio di un povero letterato, I giorni del sole e del grano, Io cerco moglie) non è un vero romanzo, ma una raccolta di aneddoti, di episodi, di dialoghi curiosi, di situazioni ironiche. Si potrebbe pensare proprio a un album di fotografie, dedicato a cogliere gli aspetti delle due classi sociali delle quali Panzini è stato un acuto osservatore: i contadini (che erano così diversi da lui) e i borghesi (che erano in parte come lui). Solo che Panzini ha sempre fatto di tutto per sembrare più simile a un contadino che a un borghese. O perlomeno si è sempre mostrato un borghese che aveva assorbito la saggezza contadina ed era capace di tener testa sia ai colti che agli incolti. In lui si alternavano la maschera di Bertoldo e quella di Re Salomone: come Bertoldo osservava le trasformazioni della classe borghese e le ridicolizzava, come Re Salomone dava consigli ai contadini e li riprendeva paternamente.

Panzini sapeva che la saggezza nasce dalla terra, che i frutti della terra sono il primo modello del pensiero e il nutrimento dell’intelligenza. Per questo Bellaria, la Casa rossa, i contadini e i pescatori erano diventati il suo mondo. Il mondo che attraverso le sue opere tutti gli italiani potevano conoscere, per farne oggetto di sapienza e di meditazione. Perché Panzini è soprattutto uno scrittore moralista, un aspro moralista. Nei Giorni del sole e del grano viene riportata la frase che i mietitori dicono a una donna sventurata che desidera morire: «Volete morire adesso che viene il grano nuovo?». Le risposte sugli interrogativi fondamentali dell’esistere alla fine vengono offerte dalla terra, la saggezza viene da qui.

Quando Marino Moretti (che vediamo nelle foto qui raccolte) lo andava a trovare, Panzini si vergognava di essere chiamato poeta. Anzi, di fronte a Finotti, il fattore che incarna il buon senso della campagna, Panzini prega Moretti di non chiamarlo poeta. Ha paura che in questi luoghi il nome di poeta sia sinonimo di pazzia: «Ho sentito dire sul mio conto: - L’è matt!». Così Panzini ridicolizza se stesso mettendosi nell’ottica dei suoi contadini, così si presenta con Finotti nelle scene di vita che riguardano la coltivazione dei campi, la salute delle vacche e dei maiali, l’utilizzo dei liquami e dei concimi.

Oggi le stanze di Alfredo si arricchiscono anche delle stanze di Finotti, un altro importante pezzo del percorso con cui il comune di Bellaria intende riportare in vita la memoria di Panzini. E per questo l’allestimento scelto da Claudio Ballestracci, in sintonia con quanto fatto nella Casa rossa, riprende il filo della memoria e utilizza libri consunti, arrugginiti, mangiati dal tempo, per accompagnare l’album delle foto di Panzini: lo scrittore visitato dagli amici, lo scrittore in veste di uomo dei campi, lo scrittore e i famigliari, la tomba della Canonica visitata da Benito Mussolini. Sono pezzi della vita di Panzini rimasti intatti fino a noi per comporre un album da osservare e leggere accanto alle pagine dei suoi libri. Sono le facce di Alfredo, colte nei luoghi dove un letterato poteva sembrare un contadino.

Marco A.Bazzocchi

In occasione dell’apertura dei nuovi spazi è stata realizzata una mostra fotografica di immagini originali, fra le quali alcune inedite, di Alfredo Panzini assieme ai familiari o amici che frequentarono la Casa Rossa fra il 1907 e il 1939 in modo da restituire e instaurare subito un legame intimo fra le stanze e le persone che le avevano vissute. Alcune fotografie sono state allestite in modo da formare gruppi di ritratti all’interno delle stanze proprio come fossero persone in visita riapparse per l’occasione. Altre fanno da copertina a volumi in rame denominati “album di famiglia” disposti su di un tavolo in lamiera, un lungo tavolo della memoria da percorrere come un racconto.
Le fotografie sono contenute all’interno di scatole in lamiera zincata, con le didascalie sostenute da fil di ferro ad evocare gli attrezzi agricoli, i complementi di arredo e il ri-uso nella cultura contadina. Le fotografie luminose alloggiate sulle coste dei libri richiamano l’album ma anche l’evanescenza delle immagini cinematografiche: luce che riemerge dalle dimenticanze.
Le fotografie sono state selezionate, scansionate, e stampate in formato digitale su forex, alloggiate dentro scatole di metallo di misure variabili e protette da una lastra in vetro. Ogni fotografia reca una didascalia racchiusa in una etichetta in plexiglass serrata da un dado a farfalla o “galletto” e sostenuta da fil di ferro.

Claudio Ballestracci