claudio ballestracci

storia di un allestimento

di Claudio Ballestracci

Rendere accessibili luoghi, oggetti o memoria nonostante la loro censura. Creare un percorso attorno all’isola murata per individuarne il varco, l’accesso ideale. Profanare il divieto in virtù della conoscenza, fissandone il gesto, il desiderio, la curiosità: aprire le porte soffermandosi sul concetto di apertura, ove la conoscenza di ciò che sta oltre contiene nuove necessarie “murature”. Da “Le stanze di Alfredo”

Ai tempi della scoperta della casa che diventerà l’attuale casa museo di Alfredo Panzini, non ne conoscevo l’appartenenza. Siamo a Bellaria, costa adriatica, nel 1998.
Vedo questo parco, quasi un bosco, sicuramente abbandonato. Strano, per essere così vicino al mare dove quasi tutti gli edifici hanno un profilo turistico speculativo, e tutto sommato è abbastanza vicino anche al centro abitato. Tra cespugli di rovi, edera e sambuco vedo questa casa con le finestre murate. Ricordo che siamo in pieno inverno, con una leggera nebbiolina a rendere il tutto molto suggestivo. Incuriosito, ci ritorno più volte finché trovo un piccolo pertugio, all’altezza dei piedi, che i giorni precedenti non avevo notato. Qualcuno aveva asportato la grata che proteggeva la mezza finestra del piano interrato. La curiosità vince sul buio del passaggio “segreto” e mi introduco a fatica. E qui incomincia la mia esplorazione. Sento scricchiolare sotto i piedi vetri e macerie. La luce entra solamente dove mi trovo in quel momento, un piccolissimo gabinetto semidistrutto, ma girato l’angolo il resto è completamente al buio o, meglio, devo attendere che le pupille si dilatino per intravvedere qualcosa.

Qui, alcuni passi del diario che ho tenuto in quei giorni.

Casa Panzini, martedì 10 dicembre 1998
Varco finalmente la soglia della misteriosa Casa Rossa, inaccessibile da anni. I suoni dall’esterno giungono ovattati, lontani. Si ha la sensazione di avere trovato il flebile passaggio per un’altra dimensione, le lancette dell’orologio rallentano per il periodo di permanenza. All’interno non vi è nulla, se non l’eco delle stanze vuote, ed è esattamente quello che mi aspettavo: il mistero dell’interno della villa è qualcosa di impalpabile, di non riproducibile. Profanare la sacralità del luogo, il suo essere incontaminato, dissolve a volte l’incanto.

Casa Panzini, domenica 17 gennaio 1999
Scendo le scale, scricchiolano le macerie sotto le scarpe, l’oscurità mi avvolge e preme sull’epidermide. Seminterrato. Il ricordo mi trasporta alle suggestioni di certe incursioni giovanili nelle cantine del vecchio palazzo di ringhiera nella periferia di Milano, dove abitavo. Armato di torcia elettrica percorrevo incerto i lunghi cunicoli maleodoranti, con il fondo in terra battuta e il sommesso mormorio dell’acqua nelle tubature dove qualche perdita generava minuscoli rivoli sulle pareti, come da naturali sorgenti rupestri. Il sotterraneo era privo di luce elettrica, avanzavo lentamente ispezionandone ogni centimetro quadrato. A volte, quando il rettangolo luminoso dell’ingresso alle mie spalle scompariva, mi arrestavo e spegnendo la torcia provavo ad ascoltare i rumori della strada o del cortile, non si udiva quasi nulla, i suoni giungevano smorzati, attutiti come da immani lontananze. Per un attimo ero come al sicuro, nel ventre della casa, inghiottito dall’oscurità… scomparso. Improvvisamente mi assalivano strani pensieri che mutavano in breve l’affabile scenario, così le esplorazioni si concludevano con una forsennata corsa verso l’uscita. Nelle oscurità amniotiche di villa Panzini le sensazioni persistono ma senza fughe. Un’elica, simbolo invisibile, rotore dell’anima letteraria, ronza nel cuore della casa. Corrose tubature sorgono dai pavimenti del piano interrato come a voler estrarre linfa vitale dal sottosuolo ai piani superiori, sorta di idraulica ramificazione metafisica che affonda nella fertile terra di Romagna e garantisce alla casa di sopravvivere.

Casa Panzini, mercoledì 10 febbraio 1999
Murate oscurità del piano rialzato, mi muovo alla cieca tastando la parete della prima rampa di scale dimentico della torcia elettrica. Giro l’angolo, si staglia una lama di luce dal soffitto, proiezione di flemmatici fiocchi di neve come germinati artificialmente da ologramma tridimensionale. Spalanco le imposte sul meraviglioso parco invernale imbiancato, una luce diafana penetra le stanze rivelando lentamente…

disegno di Claudio Ballestracci

 

Queste note sono state poi inserite in un quaderno a stampa, “Le stanze di Alfredo”, pubblicato l’estate successiva, nel 1999, ad accompagnare l’installazione che ha avuto luogo quando ho cercato di concretare e sfatare quel “non riproducibile” dichiarato. E quando, dopo essermi documentato sull’identità del luogo, della sua storia e del suo recente passato, ho deciso di lavorare su un equivoco, su una provocazione. Ho dichiarato Casa Panzini aperta al pubblico e, nell’arco di tre serate estive dalle ventuno a mezzanotte, ho dato – a mio modo – libero accesso alle stanze della Casa Rossa.
In realtà avevo escogitato un inganno. La casa era ancora pericolante e inagibile, e gli ingressi sempre sigillati. Così, attraverso un accurato lavoro tecnologico avevo preparato all’interno della villa un set di dodici telecamere a circuito chiuso, con vari tipi di ottiche puntate sulle stinte pareti decorate, sui soffitti illustrati di piccole vedute, sui sanitari corrosi della stanza da bagno, ma anche sul vuoto delle stanze. Avevo inoltre predisposto, coinvolgendo alcuni musicisti, una colonna sonora minimale fatta di suoni e rumori: fra i cespugli in prossimità della villa avevo nascosto elementi acustici che riproducevano il ticchettio di una vecchia macchina da scrivere, mentre dal parco si diffondevano le musiche. Sui vecchi pioppi ritorti avevo appeso dodici monitor contenuti in casse di ferro (allora avevo in dotazione i monitor col cinescopio) di varie dimensioni e collegati in diretta con le telecamere all’interno della villa. I cavi di connessione erano stati accuratamente sotterrati in modo che l’effetto estraniante di un miraggio non mettesse a nudo l’espediente tecnico.
Le stanze di Alfredo erano finalmente accessibili, però dal parco, attraverso i dodici monitor, in modo che, stante la disposizione scomposta delle finestre elettroniche, si aveva la sensazione che fossero state appoggiate nel parco porzioni di casa in una sorta di decostruzione concettuale.

È stato un modo per provocare l’interesse del pubblico, ma anche delle amministrazioni, giocando sul filo dell’azione etica/poetica. E così pure della ricreazione, seppure artificiale, dell’incanto di cui parlavo. Ricordo di aver scritto:

Le immagini ora possibili assumono valenze trascendentali, diventano impalpabili e paradossalmente irraggiungibili ancor più delle impraticabili stanze. La tangibilità della villa resa immaginifica da un filtro. Una volta spenti i monitor, svaniscono le immagini e con loro, per sempre, le stanze di Alfredo.

Ovvio, era solo una provocazione.
Eppure, sette anni più tardi la casa è stata ristrutturata e restaurata dall’Amministrazione comunale di Bellaria Igea Marina. E credo, con questa installazione, di aver dato un piccolo contributo alla causa, se non altro per averla documentata un’ultima volta nello stato in cui era, uno stato che definisco di grazia, dove la vegetazione tenta di riappropriarsi dei luoghi che le appartengono. In una nota che ho letto nel romanzo La lanterna di Diogene, lo stesso Panzini scrive:

Perché io evitai le città, né mi fermai in esse: le grigie mura mi avrebbero ricordato le morte età, le vane opere delle generazioni umane. Oh, più sapiente tu, o Terra! Tu riassorbi ciò che, da te prodotto, si muore, e ne ricomponi le giovani primavere.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Nel 2007, mi è stato affidato dall’Amministrazione Comunale di Bellaria Igea Marina il compito di pensare agli allestimenti interni ed esterni alla casa.
Il problema e in parte la “fortuna” di questa casa divenuta museo vanno paradossalmente cercati proprio in quegli anni di abbandono e, in parte, di saccheggio. Le stanze erano completamente vuote e andavano reinventate. Anomalia che mi ha permesso una certa libertà di movimento, mentre i pochi mobili e oggetti rimasti, appartenuti a Panzini, sono diventati simboli per identificare le stanze. Grazie agli ornamenti originali, la casa è ricca di simbologie e riferimenti al mondo classico. Sui soffitti vi sono piccoli dipinti a secco con vedute di templi e casette, una locomotiva a vapore e imbarcazioni a vela, vasi egizi e un ritratto di Dante Alighieri, allusive figure a metà tra mitologia classicista e cultura popolare. I decori delle stanze mi hanno indotto a lasciarli quanto più possibile visibili. Non solo, ma sono stati fonte di ispirazione per i nuovi arredi. La rielaborazione mi è stata inoltre suggerita dalla poetica dell’autore, attraverso i suoi libri e, più ancora, i manoscritti. Da quel momento in poi, tutte le scelte sono state operate rapportandomi con il direttore scientifico, Marco Antonio Bazzocchi, con cui collaboro da qualche anno in un clima di sintonia pienamente consolidato.

La casa è stata finalmente aperta al pubblico nel giugno 2007 con la mostra “Carte all’aria!”. Oggi, la Casa Rossa di Alfredo Panzini, museo e parco culturale, è composta, non solo dal nucleo centrale, ossia la vera e propria casa dello scrittore, ma anche dalle pertinenze attigue, tre casette, due delle quali erano in origine abitazione e stalle del fattore Finotti, al servizio di Alfredo Panzini. La terza è un edificio, detto “il pensatoio”, dove l’autore si ritirava a scrivere e dove alloggiava i suoi ospiti. Tutti edifici di modeste dimensioni, all’interno del parco.

La casa museo riapre le sue porte ogni primavera per concludere la stagione in autunno. Fin dall’inaugurazione si erano gettate le basi per procedere diluendo l’apertura della casa in più appuntamenti, con l’intento di creare attorno all’oggetto parco/casa/museo un polo di interesse dinamico, seguendo l’idea di un laboratorio o fucina, di contenitore fluido, di luogo mentale oltre che museo permanente.
Il proposito è di rinnovare e aggiungere elementi a ogni apertura di stagione in modo che il visitatore non si trovi davanti a un contenitore statico. Peraltro, a differenza dei cimeli o dei mobili, la quantità di documenti cartacei originali è considerevole ed estremamente interessante, cosa che permette di scegliere ed esporre le carte a puntate e a tema.

disegno di Claudio Ballestracci

visti da vicino

La Casa Rossa si sviluppa su tre piani: un seminterrato, dove un tempo erano cantine e cucina, il piano rialzato con soggiorno e sala da pranzo e il primo piano con studio, camera da letto e bagno. Oggi, tutti i locali sono spazi espositivi. Così pure la sala d’ingresso, dove ho disegnato quattro vele che ospitano due foto e la grafia di Panzini: teli che ricordano le tende in uso al mare al posto degli ombrelloni, negli anni Venti, ma anche i fogli riciclati su cui l’autore scriveva.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Un’insegna per la Casa Rossa
Al fine di identificare immediatamente la casa dello scrittore e l’area circostante a lui dedicata ho disegnato l’insegna a forma di libro stilizzato. La copertina in pvc stampato reca la medesima grafica della guida, avvolta su un telaio in ferro zincato e fissato a terra tramite quattro plinti in cemento.
Il libro/insegna, stampato su entrambi i lati e sul dorso, è visibile dal cancello, dalla strada (via Panzini) e dal parco. Su entrambi i lati sono alloggiate due lampade a led a filo del terreno per illuminare in modo radente la superficie delle due facciate.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Totem informativi esterni
Per caratterizzare e facilitare il riconoscimento delle aree di accesso alla casa sono stati realizzati due pannelli segnaletici in metallo che riportano il nome e il logo della Casa Rossa. Per una maggiore visibilità e, non ultima, una migliore resistenza alle intemperie, i pannelli recano la grafica traforata nel metallo e verniciata a forno. I pannelli rosso corallo rimandano evidentemente all’appellativo della casa, così come l’insegna e la copertina della guida. Inoltre i pannelli, denominati “totem informativi”, recano una finestrella, ispezionabile dalla parte posteriore, per eventuali avvisi e orari di apertura e chiusura, facilmente sostituibili. Durante le ore notturne, i “totem” sono illuminati da una luce a led a basso consumo posta ai piedi del manufatto. L’ausilio delle lampade a tecnologia led permette, oltre a un sicuro risparmio energetico, un’accurata destinazione della luce sull’oggetto desiderato, in modo da non disperdere inutilmente il fascio luminoso. I totem sono ancorati al terreno tramite un telaio in ferro zincato fissato a plinti in cemento. Le lampade, tramite apposito scavo, sono collegate all’impianto luci di servizio all’esterno della casa..

L’impianto mimetico
Dato che gli apparati tecnici necessitano di energia elettrica e i punti di distribuzione sono minimi, si è ritenuto necessario allestire apposite linee esterne per non deteriorare i decori degli intonaci con eventuali tracce parietali. L’impianto elettrico aggiuntivo è stato realizzato nella “sala delle vele” e nel bagno. Per meglio sintonizzarsi allo stile degli interni sono stati utilizzati tubi in rame ossidato per la sala decorata e naturale per il bagno. La particolare pigmentazione degli ossidi di rame fa sì che l’apparato tecnico si mimetizzi efficacemente con la pastosità delle terre alle pareti.

Totem biografici interni
Oltre alla Piccola guida, coadiuvano la visita quattro pannelli informativi posti ai quattro angoli dell’ingresso principale. Al fine di non coprire le pareti della stanza, riccamente decorate, i totem informativi sono composti di due tubi in ferro naturale su piedestallo, dai quali si diramano altri tubi più piccoli che tendono tre teli sui quali trovano posto i documenti stampati. Uno dei tubi contiene due strisce di lampade a led per illuminare la parte illustrata. Ognuno di questi totem porta un simbolo diverso, intagliato nel ferro e disegnato appositamente per individuare facilmente i vari capitoli descritti nella guida. Oltre a rimarcare l’appellativo di “sala delle vele”, i teli sottili e allungati rievocano i manoscritti vergati da Panzini e contenuti nelle teche della sala attigua.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Totem info e sedute
Con l’intento di mantenere lo stretto rapporto fra progettazione degli arredi e i temi suggeriti dall’autore, i pannelli informativi sono costituiti da manubri di bicicletta autoilluminanti che sorreggono un telo in cotone prestampato, mentre le sedute sono state ricavate da vecchie selle di bicicletta trovate nei mercatini dell’usato. I riferimenti sono chiaramente suggeriti dalla passione di Alfredo Panzini per la bicicletta, come leggiamo nel romanzo La lanterna di Diogene.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Stanzino da bagno
La valorizzazione della stanza da bagno gioca sull’ironia di alcune citazioni panziniane, unitamente a un piccolo impianto scenico. L’installazione consiste nell’impiego di due teli in cotone forato e stampato per mimetizzare l’area del wc e vestire la superficie della vasca deteriorata dal tempo, altrimenti da restaurare. Sul fondo della vasca è stata alloggiata una lampada neon coperta da una sagoma in plexiglas, sulla quale è adagiata una composizione di saponi di Marsiglia. I teli, opportunamente illuminati da lampade a led direzionali, riportano alcune citazioni dal Dizionario moderno di Alfredo Panzini con riferimenti all’igiene personale e al bagno. In questo modo si è voluto rivalutare uno spazio altrimenti poco attraente.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Il letto manifesto
Il letto diventa la cornice per illustrazioni, grafie o copertine, rinnovata a ogni nuova esposizione. In questo modo si evita di utilizzare pareti o pannelli aggiuntivi che andrebbero a ingombrare ulteriormente le piccole stanze. In occasione della mostra “La casa delle parole”, il copriletto in cotone stampato è stato usato per riprodurre la copertina del Dizionario moderno nell’edizione Hoepli nel 1927.

La vetrina dei libri
Per migliorare la visione dei libri in prima edizione e i cimeli panziniani, sono state alloggiate all’interno della vetrina originale quattro strisce di lampade a led. La bassissima emissione di calore e la bassa emissione di raggi uv, congiuntamente al ridotto ingombro degli apparati tecnici, ha permesso l’applicazione su legno delle lampade all’interno di un ambiente chiuso. La scelta della fonte luminosa assume importanza vitale per la sicurezza e la conservazione dei documenti cartacei.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Leggio vetrina
Per dare la possibilità di consultare comodamente i documenti originali ho disegnato dodici piccole vetrine in forma di leggio. All’interno trovano posto due pinze per serrare e mantenere i documenti in sospensione al centro della cornice al fine di isolare e portare all’attenzione i particolari più curiosi di una scrittura amanuense. Non è lo sguardo ad abbassarsi ma le carte che vengono a noi.

disegno di Claudio Ballestracci

 

I faldoni trasparenti
Per esporre i manoscritti autografi ho voluto mantenere l’esatta dimensione e fattura dei faldoni originali che si usano abitualmente per archiviare i documenti. In questo modo, l’alloggiamento delle carte da un contenitore all’altro risultava senz’altro più “naturale”: era come vedere le carte riposare nel loro habitat. In occasione della mostra “Carte all’aria!” sono stati esposti sette romanzi manoscritti completi, fra i quali Il padrone sono me!

disegno di Claudio Ballestracci

 

La teca lanterna
Date le piccole dimensioni delle stanze ho progettato un prototipo di teca per ospitare piccoli oggetti, cercando di nascondere il meno possibile le pareti. Anzi, per meglio integrarsi con l’ambiente ho dato a ogni teca il colore della parete che la ospita. La minuscola vetrina sormontata da una piuma ricorda vagamente una lanterna, con palese riferimento alla Lanterna di Diogene, uno dei libri più celebri dello scrittore. Così scrivevo nel catalogo:

Le teche, di forma cilindrica nella parte trasparente e conica alle due estremità, sono costruite in metallo e materiale plastico, dipinte dello stesso colore della stanza a cui sono destinate in modo da integrarle più efficacemente nel disegno degli interni. Le lanterne portano sulla loro estremità, come effige, una piuma stilizzata, la penna, simbolo classico della scrittura amanuense, consuetudine peraltro frequentemente adottata dallo scrittore Panzini. Inoltre la piuma, nel suo particolare disegno, si fonde con i decori delle pareti che propongono costantemente elementi naturali di flora e fauna. Come vere lanterne, le teche contengono una luce propria, che occorre per illuminare l’oggetto ospitato, permettendo così un facile posizionamento nello spazio. La lanterna, oltre a valorizzare l’oggetto contenuto, contribuisce in modo efficace a caratterizzare lo stile della casa museo immersa nel suo prezioso bosco: lanterna che illumina, casa dei lumi, il lume della conoscenza.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Foresta antologica
Ancora nel 2007, in occasione dell’apertura, avevo allestito nel parco circostante un’installazione temporanea dal titolo “Foresta antologica”: dodici libri giganti corredati da una congerie di imbuti per la canalizzazione degli appunti. Libri che, avendo trovato terreno fertile, sono cresciuti a dismisura, alimentati direttamente dalle esperienze catturate per mezzo di canali di raccolta. Oggi nel parco è presente un solo prototipo in proposta a una nuova installazione futura e permanente dove ogni volume, battezzato con il titolo di un libro di Panzini, sarà corredato di un cassettino luminoso in cui si leggono le prime righe del romanzo. Una foresta di libri allestita sotto le stelle per segnare attraverso il sentiero delle parole l’approdo alla casa, trasformando così il parco pubblico in un museo all’aperto.

disegno di Claudio Ballestracci

 

La casa delle parole
Nel 2011 ho allestito la mostra che ha per titolo “La casa delle parole”, dedicata al Dizionario moderno di Panzini, probabilmente l’opera sua più complessa, pubblicata in prima edizione nel 1905 (la settima, nel 1935).
Per l’occasione ho selezionato una lunga serie di schedine, anche queste preparate da Panzini stesso e ottenute da ritagli di carte usate, su cui l’autore appuntava il significato delle varie parole spesso portandosele comodamente in tasca. Le schede sono state alloggiate dentro minuscole vetrine, appunto come le farfalle di un entomologo, sostenute da piedistalli che sembra vogliano sfiorare il viso dell’osservatore/visitatore e non viceversa. I piedistalli ricordano anche astratti contenitori per il latte o granaglie, in riferimento alla passione di Panzini per la vita contadina, quale appare evidente in molti documenti e fotografie.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Album di famiglia
A proposito di fotografie, vorrei citare ancora una mostra precedente, “Album di famiglia”, allestita in casa Finotti, dove ho cercato di legare ai contenuti delle fotografie la scelta della materia prima con cui ho concepito la “cornice”. La lamiera zincata era spesso usata per attrezzi agricoli o in cucina (per esempio, nei secchi del latte), mentre il fil di ferro era all’ordine del giorno per le riparazioni. Così, ho alloggiato le fotografie dentro scatole di lamiera zincata, da cui si dipartono le didascalie sostenute da fil di ferro, come fossero arcaici fumetti.

disegno di Claudio Ballestracci

per il futuro

Già in “Carte all’aria!” anticipavo nuovi progetti…

La scrivania
Così come le lanterne assumono significati simbolici, la scrivania diventa strumento, macchina da lavoro dello scrittore da cui si dipanano numerosi i fogli vergati. Lo studio di Panzini è occupato dall’anima di una scrivania più grande che contiene l’originale; è il pensiero, la parola che sovrasta la caducità della vita, è il simbolo della letteratura. La scrivania di carte è costituita da centinaia di pagine volanti in forma di banderuola, di fazzoletto, di libro aperto, ricordando qualcosa di avvezzo all’aria, abituato al vento, forse a un maestrale. Sono pagine che prendono il volo dai cassetti della scrivania e formano l’unica scrivania tangibile e leggibile: l’opera dello scrittore.

disegno di Claudio Ballestracci

 

Lo scrigno poetico
Per l’esposizione pratica dei documenti cartacei (i manoscritti da cui i libri) un archivio a cassetti con scorrimento verticale disegna in un parallelepipedo trasparente, la stratificazione dei documenti e la sovrapposizione della grafia in un gioco di linee tremolanti. Scrigno poetico, trasparente e consultabile, unico vero tesoro della casa di uno scrittore. Ogni cassetto contiene gli scritti di un determinato periodo storico che una volta estratto innesca un brano musicale appartenuto a quegli anni.

esporre le parole. qualche indizio

Nel corso della mia esperienza artistica ho sempre trovato molto stimolante e, tutto sommato, facile lavorare in relazione con un testo e quindi con l’autore, con la sua opera e la sua biografia, perché in qualche modo la strada per elaborare un nuovo progetto è suggerita in parte dall’autore stesso, di cui cerco di interpretare lo spirito filtrato dalla mia esperienza. Devo dire che le mie prime esperienze artistiche hanno sempre avuto a che fare soprattutto con i testi, una fascinazione quasi morbosa, tanto da cercare di dare vita all’incanto provocato da quella serie di parole racchiuse in un dato libro. Mi sembrava di per sé una cosa magica questo potere della parola che genera un’altra cosa, sia essa un oggetto, un quadro, una scultura o un progetto più complesso (il caso era quello della Nausea di Sartre, dove la maniglia della porta sembrava di sentirla nel palmo della mano). Tanto che, a proposito di letteratura da esporre, durante la mia esperienza presso un altro museo in Francia, con cui ho collaborato dal 2005 al 2008, ho applicato ai volumi delle cannucce per estrarne la “linfa” e trasportarla, attraverso un impianto idraulico, presso tutti i vani di quell’area del museo – tentativo di diffusione della cultura via etere. Ancora, mettere su di una graticola il personaggio condannato al rogo sotto forma di nome scritto con una resistenza elettrica, in modo che il visitatore, ruotando la manovella del girarrosto, facesse arroventare il filo sino a leggerne il nome. Vero è che in quel caso l’azzardo era consentito: la casa museo era La Devinière a Chinon e, l’autore, François Rabelais.